L’orsacchiotto Steiff 55 PB di Richard Steiff

Di tutti gli oggetti comparsi in Germania nell’epoca industriale, l’orsacchiotto Steiff 55 PB è forse I’unico ad essere universalmente guardato con affetto.

Inventato da Richard Steiff, l’amatissimo nipote di Margarete Steiff, fondatrice dell’azienda di famiglia, l’orsacchiotto nacque dagli schizzi di orso che, ex studente d’arte, egli aveva fatto alto zoo di Stoccarda.

Confezionato in morbido tessuto mohair e riempito con fiocchi di lana, l’orsacchiotto dall’aspetto un po’ goffo si aggiunse al nutrito stuolo di giocattoli per bambini prodotti dall’azienda.

L’orso dagli occhi di vetro si distingueva dagli altri in quanto era possibile muoverne gli arti, cuciti con un filo molto robusto cosi da essere manovrabili indipendentemente dal busto.

Soprannominato “55 PB” per il materiale col quale era fatto (Phisch, “stoffa“), la sua mobilità (Beweglichkeit) e la sua altezza (55 centimetri), l’orsacchiotto in un primo momento fu rifiutato sia dalla matriarca Steiff (che lo giudicava poco attraente) arancione, marrone e nero, sia dalla clientela, che ebbe una reazione assai simile.

A consolidare il posto di questo orsacchiotto nella storia dei giocattoli, tuttavia, intervenne un acquirente americano che nel 1903 visitò la Fiera commerciale di Lipsia e colse al volo l’occasione di acquistarne 3.000.

La Fiera Mondiale di St. Louis del 1904 segno il debutto in America dell’orsacchiotto, la cui celebrità crebbe ulteriormente nell’immaginario popolare grazie all’allora presidente, Theodore Roosevelt che, nonostante la sua fama di abile cacciatore, si diceva avesse risparmiato durante una battuta di caccia un cucciolo di orso.

Comunque siano andate le cose, il convergere della favola del presidente e dell’ingegnosità del design spinse migliaia di imitatori a lanciare sul mercato orsacchiotti di ogni tipo, e Steiff a identificare le sue creazioni con un bottone d’ottone fissato all’orecchio sinistro e riportante il logo della Steiff, tradizione the perdura ancor oggi per identificare la progenie dell’Orsacchiotto 55 PB.

Sarebbe sicuramente scorretto affermare che la funzione del Teddy Bear rappresentare un orso. Non è cosi.

Si tratta di un nuovo tipo di orso, una creazione di questo secolo e forse anche una delle poche piacevoli.

Non penso che Christopher Robin si sia mai chiesto chi avesse creato il suo caro Winnie che egli chiamava Pooh, ma col passare del tempo la curiosità degli intellettuali e l’avidità del mercato hanno conquistato anche le nursery.

Teddy Bear che conosciamo può attendibilmente essere attribuito a due artisti indipendenti: il costruttore tedesco di giocattoli Margarete Steiff per il prodotto vero e proprio, e una americana di nome Morris Milton, inventore del nome “Teddy Bear” e, quindi, del giocattolo che conosciamo, che attorno al 1902 scrisse al presidente Theodore Roosevelt chiedendogli il permesso di chiamare uno dei suoi pupazzi di peluche con il suo nome, permesso gentilmente accordato.

Ma Milton non era un presuntuoso: si rendeva conto che al suo orso mancava qualcosa e quando, di passaggio a Lipsia, vide un orso di nome Petz prodotto dalla Steiff, ne ordinò immediatamente tremila esemplari, con grande stupore da parte dell’azienda produttrice.

E questo fu l’inizio della carriera di Teddy Bear.

Dico “carriera”, ma è soltanto negli ultimi anni che questa creazione ha avuto l’onore di essere battuto all’asta da Christie’s, dove il 5 dicembre 1994 un esemplare risalente al 1904 venne pagato 110.000 sterline.

Quella che potremmo definire l’estetizzazione o la riabilitazione del Teddy Bear avvenne qualche secolo dopo l’estetizzazione dei dipinti dei santi.

Di sicuro, l’originaria domanda di un orsacchiotto non era la richiesta di un’opera d’arte, bensì di una creatura con la quale giocare, di un compagno che condividesse con un bambino il cuscino o il desco, in altre parole, una creatura dotata di qualcosa di simile a un’anima.

E difficile trovare una parola adatta a descrivere la capacita di un’icona tridimensionale a lasciarsi attirare nel mondo degli esseri umani, a diventare non rappresentazione di qualche altra cosa, ma (quasi) individuo a tutti gli effetti.

Forse il termine “personalizzazione” avrebbe potuto andar bene, se non fosse stato cosi orrendamente usata a sproposito. Altrimenti, meglio che posso trovare e “animazione”.

Per un bambino, quell’immagine munita di vita propria, non una vita pericolosa ma una vita fittizia, quella del gioco”.

E.H. Gombrich, The Uses of Images: Studies in the Social Function of Art and Visual Communication, Phaidon, 1999

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